Cottarelli, false fatture e Iva evasa

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    Ricostruita in aula la truffa costruita dal faccendiere e dai cugini Marino.


    (red.) Ieri davanti alla Corte d'assise del Tribunale di Brescia si è svolto una nuova udienza – la terza – nei confronti di Vito e Salvatore Marino, accusati di aver torturato e ucciso la famiglia Cottarelli il 26 agosto del 2006.
    L'accusa ha cercato di ricostruire, grazie alla testimonianza di Livio Michieli, gli affari che Angelo Cottarelli intratteneva con i cugini trapanesi. Traffici poco chiari, per la verità, con un unico scopo: quello di arricchirsi senza badare alla forma. Il teste, indagato nell’inchiesta della procura di Trapani per frode fiscale, è stato sentito in presenza del suo legale, l’avvocato Marco Agosti.
    Secondo Michieli, tutta la vicenda è nata in seguito a un giro di false fatturazioni. La Dolma di Cottarelli, presieduta dallo stesso Micheli, incassò dalle attività di Vito Marino alcune fatture gonfiate per la costruzione di una nuova cantina vinicola. La società bresciana trattenne il 5% dell'importo, un altro 5% fu dato a un altro faccendiere, Francesco Tartamella, più l'Iva da versare. Vito Marino, ricevette in contanti la cifra restante e, nel frattempo, contava di ricevere un contributo a fondo perduto per il suo investimento fittizio (ma dimostrato dall'uscita di capitale).
    La Dolma, però, non rispettò gli accordi e, evadendo totalmente l'Iva, fece scattare un accertamento fiscale, che congelò anche la richiesta di contributo del siciliano. Non solo, il faccendiere bresciano ottenne anche circa un milione e mezzo di euro dalle banche, chiedendo degli anticipi su alcune fatture. Gli istituti di credito, quindi, andarono a battere cassa bloccando, inoltre, una serie di affidamenti ai clienti di Cottarelli. Vito Marino a quel punto si trovò in difficoltà, e tornò a farsi sentire da Cottarelli, chiedendogli 600 mila euro per gli ultimi affari e almeno una fetta dei 958 mila euro di "riba" incassate da Cottarelli grazie alle fatture a suo nome. Il bresciano, però, non accettò le condizioni imposte. La spedizione punitiva in via Zuaboni, quindi, sarebbe nata per una questione economica.

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